lunedì 7 settembre 2009
Empatia < Apatia < Cattiveria
A proposito di una società sempre più anestetizzata, insofferente ed incattivita.
"Abbiamo disimparato l'empatia", sostiene JD Trout, autore del saggio 'The empathy gap' e docente di filosofia alla Loyola University di Chicago, secondo cui società e istituzioni hanno il dovere di promuovere tutte le forme di generosità e solidarietà possibili, per contenere gli atteggiamenti egoistici insiti nella natura umana.
Un uomo, piede ingessato e stampelle, si piazza davanti ai posti assegnati ai disabili ma occupati da persone sane. Che fingono di non vederlo. Lui, giorno dopo giorno, li fotografa col cellulare, postando poi sul suo blog quei volti apatici, a volte ostili, quasi sempre indifferenti.
Come ci siamo arrivati? Tentano una risposta due libri freschi di stampa: 'Born to be good'', in cui Dacher Keltner ribadisce il concetto rousseauiano dell'uomo naturalmente buono ma corrotto dall'ambiente, e il saggio 'Elogio della gentilezza', da poco uscito da Ponte alle Grazie. Gli autori, lo psicologo Adam Phillips e la storica Barbara Taylor, cercano di capire perché nel corso del tempo la gentilezza, intesa come empatia, condivisione, generosità, altruismo, bontà, sia diventata un disvalore. "Una società come la nostra, che promuove il valore della competizione e quindi si basa sulla divisione tra vincitori e vinti, non può che generare cattiveria", sostiene Taylor: "La gentilezza, o bontà, è diventata la qualità dei vinti".
"Il nostro narcisismo ci rende fragili, vulnerabili allo sguardo altrui. Abbiamo costantemente bisogno di approvazione e affetto, e se non li otteniamo ci convinciamo di essere circondati da gente malvagia. Certo, la competitività che sembra regolare oggi i rapporti non aiuta."
"Il latino captivum, prigioniero. Abbiamo comportamenti cattivi perché siamo prigionieri delle nostre pulsioni. Invece di educare ai nostri figli una sana, necessaria dose di frustrazione rimettendo un po' di autorità nelle relazioni, li abituiamo ad avere tutto subito. Ma la soddisfazione di tutti i desideri - quindi delle pulsioni - crea dei mostri di perversione, egoisti immaturi che non hanno la minima considerazione per il prossimo"
"A Napoli per dire che uno è fesso usiamo l'espressione 'tre volte buono'", commenta l'antropologo Marino Niola. E fa notare che nell'Italia dei furbetti, l'ingenuità intesa come sincerità, il credere in quello che si dice, è un disvalore: "Siamo parte di una cultura cattolica che insegna che si può fare di tutto, a condizione di pentirsi". Per Niola l'incattivimento diffuso è anche reazione al buonismo e al politically correct: "Ampiamente motivata: il buonismo è tutto fuorché buono. Pensiamo di attenuare la realtà con parole belle e buone, in realtà è sostituzione delle parole alle cose. Sì, ci stiamo incarognendo. Per il contesto in cui viviamo, che ci rende più insicuri, spaventati.
E, come diceva Sofocle, 'Per chi ha paura tutto fruscia'. Chi è spaventato è più cattivo: siamo soli e il vicino, l'altro, diventano necessariamente dei nemici. La solidarietà viene meno e lascia il posto a un'animosità che spesso diventa modus vivendi, connota anche i rapporti personali. Un po' come se avessimo due software che funzionano alternativamente, della bontà e della cattiveria, ciascuno attivato dalle circostanze. Siamo tranquilli, sicuri e meno soli? Ci possiamo consentire la bontà. Se invece ci sentiamo minacciati, si attiva il software cattivo. Diventiamo homo homini lupus".
"Siamo schiacciati dalla violenza della nuova natura dell'economia, la cui parola d'ordine è 'adattati alla realtà o muori (e sarà colpa tua)'. Vogliono convincerci che la flessibilità nel mondo del lavoro è sinonimo di libertà, ma cambiare mestiere continuamente perché non si ha scelta è la definizione aristotelica della schiavitù. Una società fondata su questi valori è cattiva".
"La cattiveria può diminuire solo a condizione di essere meno individualisti. Di imparare a metterci al posto dell'altro".
Estratto da L'Espresso
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1 commento:
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